OIES TALK. Takehiko Nakamura, Blue United Corporation: “Gli Esports sono un investimento che allarga la fanbase e fa guadagnare con le collaborazioni internazionali”

Takehiko Nakamura è il presidente e il CEO di Blue United Corporation, un’azienda che si occupa di sport, internazionalizzazione ed Esports tra Stati Uniti e Giappone. Ha raccontato all’Osservatorio Italiano Esports quali sono le chiavi per far cresce il business degli Esports e quali sono i trend più profittevoli all’estero.

di Riccardo Lichene

Takehiko Nakamura, di cosa si occupa la sua azienda e qual è la sua relazione con il mercato esportivo?

La mia compagnia Blue United Corporation si occupa di aiutare squadre, atleti, aziende e leghe ad approdare all’estero.

Abbiamo aiutato il Siviglia a sviluppare una fanbase in America e in Giappone, la Major League Soccer americana ad arrivare in Asia e diverse squadre di calcio giapponesi ad andare negli Stati Uniti.

La seconda parte del nostro business è un torneo di calcio nelle Hawaii che si chiama la Pacific Rim Cup a cui partecipano il Giappone, gli Stati Uniti e il Messico ed è l’unico campionato professionistico delle Hawaii.

Infine, gestiamo un team professionistico esportivo che si chiama Blue United eFC. Lo abbiamo inaugurato nel 2017 e, come in Italia, anche in Giappone gli Esports sono una novità.

Ci siamo qualificati per la FIFA eClub World Cup per due anni di fila, i nostri giocatori sono stati selezionati per rappresentare la nazionale giapponese alla FIFA eNations Cup e andiamo a tutte le FUT challenges come quella di Parigi o di Bucarest.

Applichiamo tutto il nostro know how al nostro team esportivo. Abbiamo uffici a Nagano, Tokyo e New York e il nostro team internazionale è stato fondamentale per la crescita del nostro business negli Esports.

Pensi che questi modelli di gestione sportiva che applichi al calcio giocato e al calcio simulato possano essere usati anche per altri giochi come League of Legends o Rainbow Six?

Assolutamente si! La ragione per cui i videogiochi competitivi si chiamano Esports è perché il modello di business è identico a quello dello sport.

Certamente c’è l’aspetto atletico da considerare, ma quello che non cambia è che ci sono sostanzialmente 4 revenue stream: i biglietti, le sponsorizzazioni, i diritti televisivi e l’economia degli stadi.

Questo si applica in toto agli Esports per cui il titolo potrebbe essere Fifa, League of Legends o Street Fighter non importa, perché il modello di business è lo stesso.

Quali sono tre consigli che puoi dare ai nostri associati se volessero espandere il loro business eSportivo sulla scena internazionale?

Primo: un prodotto deve essere bilingue, anche solo nelle descrizioni non per forza nella sua totalità.

L’inglese è il minimo ma se l’obiettivo di espansione è verso un paese francofono o che parla spagnolo è sempre meglio investire sulla lingua di destinazione.

Poi serve staff internazionale che capisca le differenze culturali del mercato di destinazione. Non parlo solo della lingua ma anche delle regole del mercato che si vuole andare a sfruttare.

Ultimo, bisogna sempre essere flessibili nel cambiamento e adattarsi alle richieste del mercato. Un esempio può essere la presenza sui social.

Ci sono mercati come quello tedesco che non amano essere inondati di post e contenuti e prediligono il singolo post molto curato. Il mercato cinese invece vuole quasi un nuovo contenuto ogni ora per mantenere sempre il pubblico in tensione.

Una domanda leggermente più tecnica: è possibile, secondo te, integrare le fanbase di titoli simulativi come quelli calcistici (formate principalmente da amanti del calcio giocato) con quelle di titoli eSportivi che con il calcio non hanno nulla a che fare, per esempio Rainbow Six?

Penso proprio di sì e ci sono alcune squadre europee che già ci stanno provando come il Barcellona.

Loro hanno appena firmato con un giocatore di Heartstone, perché il loro obiettivo è sfruttare gli Esports per attirare una nuova fanbase sul loro prodotto principale che è la squadra di calcio.

Questo funziona anche nell’altro senso, perché la squadra di League of Legends del Manchester City ha attirato fan del calcio a seguire le sue competizioni sul videogioco.

Il Madison Square Garden possiede un team di basket, i New York Knicks, un team di Hockey, i New York Rangers, e ha appena comprato un team eSportivo per introdurre i fan degli Esports alle loro squadre e soprattutto agli sponsor di quelle squadre.

Hai detto prima che gli Esports in Giappone stanno nascendo in questo periodo, in Italia sta succedendo la stessa cosa con business e squadre che cercano di espandere la loro fanbase. In base alla tua esperienza in Giappone, cosa consiglieresti a una compagnia che vuole iniziare a investire negli Esports?

Anche noi stiamo imparando, ma la reazione più comune che riceviamo è: ma come fai a monetizzare gli eSport?

Tutti ci dicono che è molto di moda avere un team esportivo, ma non sanno come monetizzarlo. Noi proponiamo diverse soluzioni.

Si può organizzare della formazione per aspiranti atleti o sessioni di coaching per i giocatori che vogliono migliorare come i professionisti.

Si possono prestare i giocatori del proprio team per eventi o altre competizioni parallele, ma queste soluzioni sono ancora distanti dal mainstream.

Una delle cose più curiose che ci sono capitate e da cui abbiamo imparato di più è stato il caso di un nostro sponsor che è una compagnia di assicurazioni.

Devi sapere che compagnie come quelle assicurative faticano a far cambiare clientela perché il rapporto è molto fiduciario e basato su tradizioni quasi familiari.

Loro, però, investendo negli Esports hanno targhettizzato un’utenza che ancora non aveva preso queste decisioni cercando di affezionare un pubblico tra i 12 e i 20 anni al loro marchio, così che quando avrebbero dovuto stipulare la prima polizza, sarebbero andati da loro magari rompendo con le tradizioni familiari.

Lo stesso pensiero si applica ad altre compagnie che si basano molto sulla fidelizzazione come la pay tv o le linee aeree.

In Italia sta emergendo una scena universitaria molto competitiva che ha raccolto sponsor come Amazon e Intel, voi avete rapporti con le università giapponesi?

Decisamente! Noi abbiamo aiutato diverse università a mettere insieme un circuito competitivo esportivo sempre con l’obiettivo di attirare una nuova fanbase che poi si iscriva alla scuola.

Abbiamo anche targhettizzato dei college in Giappone di nostra iniziativa e questo ha portato molto successo alla compagnia.

L’incentivo più grande, secondo me, che si può proporre alle università è che non ci sono vincoli regionali o nazionali che dettino regole negli esports.

L’università può mettere insieme il team che preferisce, come preferisce e poi cercare partner all’interno del suo paese o all’estero per organizzare eventi, campionati e persino scambi di giocatori.

La chiave è che è tutto online, per questo non ci sono confini come nello sport tradizionale per cui una lega deve essere cittadina, regionale, nazionale o continentale.

Proprio con questa possibilità di controllo sulla propria istituzione abbiamo convinto i consigli di amministrazione delle scuole ad avviare un programma esportivo.